di Pina De Simone, articolo pubblicato su «Avvenire» del 22 aprile 2021* - Dio ha un sogno. Noi abbiamo un sogno. È scritto dentro di noi, nel profondo del nostro cuore. Ed è al fondo della storia: tra le pieghe degli eventi e della loro trama apparentemente disordinata. Ma anche nelle dinamiche dei fenomeni naturali: nel sorgere del sole e nel suo tramontare, nelle stagioni, nel trasformarsi continuo della vita attraverso mille intrecci, perdite, tensioni e rinascite. È il sogno dell’unità.
Ma non una piatta, uniforme, unità in cui tutto si confonde e si sovrappone, in cui le diversità scompaiono. L’unità che sogniamo e verso cui tutto tende è una unità fatta di diversità. È una falsa convinzione quella che oppone l’unicità di ciascuno, l’irripetibilità di ciò che è singolare, alla possibilità dell’incontro e alla tensione all’unità. Nella profondità di noi stessi sappiamo bene che non è così, che non può essere così. Che unità sarebbe e quale genere di relazioni si avrebbero in un mondo all’insegna dell’uniformità?
Basta scorrere le pagine di lucida profezia della letteratura distopica, i romanzi di Orwell o di Huxley, per vedere dinanzi a noi l’incubo di una unità a tutti i costi che si fa blocco compatto, sistema onnipervasivo di controllo, riproducibilità ad oltranza, funzionalizzazione assoluta. Se l’unità diventa un diktat non può che stritolare, nella sua pretesa di compattezza, ogni singolarità, avvertita inevitabilmente come minaccia; non può che soffocare ogni profondità del sentire e del vivere, in quanto sempre connotata in maniera unica; non può che temere il senso dell’individuale. Ma l’unità non è un “dogma”. Né è un’idea, una teoria più o meno strutturata. L’unità è un desiderio: è il desiderare che nel profondo muove il nostro vivere. E in quanto desiderio, ha il sapore del sogno; ha la forza e la creatività di ciò che è eccedenza rispetto al già dato e che non può che essere tale. Ha il fascino di un cammino che rimane aperto, nella consapevolezza della bellezza e della fragilità del procedere.
Per questo il nome dell’unità è fraternità, ma anche sororità. Fraternità e sororità: perché la differenza che ci abita, e che ha bisogno di essere custodita anche nelle parole, non scompare ma si esprime pienamente nell’unità. E perché il sogno dell’unità è il sogno di relazioni vissute in pienezza in ciò che l’essere in relazione veramente implica ed esige. Ciò che si oppone all’unità non è la sana conflittualità che è dentro la diversità, ma è la pretesa di far valere il dominio o il controllo di uno su altri, la pretesa di assolutizzare una parte a discapito delle altre. L’essere in relazione esige il muoversi essendo alla pari. Diversi, ma alla pari. In un gioco di confronti, di conflittualità, di sinergie e di alleanze come quello che si crea tra fratelli o sorelle appunto. Esige che ci si scopra legati gli uni agli altri, imparando a custodire i legami come bene prezioso, con il loro carico di tensioni, nella inevitabile dialettica della diversità, ma anche con l’insostituibile ricchezza che viene proprio dall’essere diversi.
Non è scontata la fraternità/sororità ed è tutt’altro che semplice, perché ha in sé la fatica dell’alterità in tutta la sua drammatica e straordinaria concretezza. È un esercizio continuo di accoglienza, di pazienza, e anche di perdono, in cui ci si misura con il proprio e con l’altrui limite: con l’ira, il fastidio, il senso di pesantezza generato talvolta dall’altro. Non di conferme di sé è fatta l’esperienza dell’essere fratelli/sorelle ma della continua esigenza di motivare ciò che si è nel confronto con l’altro e della possibilità di imparare dall’altro, sostenendosi reciprocamente, scontrandosi e poi ritrovandosi, imparando a far valere su tutto la forza dell’essere insieme.
Per questo a caratterizzare la fraternità/sororità non è l’avvolgente quanto soffocante governo di un’autorità forte sotto la quale collocarsi e da cui lasciarsi condurre; per cui l’esser fratelli/sorelle non sarebbe altro che questo comune dipendere. È piuttosto il senso profondo della corresponsabilità e della responsabilità reciproca alla luce della quale comprendere ogni dinamica relazionale. “Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10, 44). È questa la logica della fraternità/sororità, ma anche quella dell’esser padre, madre, dell’essere adulti a fianco dei giovani e dei più piccoli, quella che regge l’esercizio di ogni responsabilità. Perché il bene fiorisca. Perché il bene che è l’altro, unico e irripetibile, fiorisca nella trama liberante di relazioni buone.
È la rivoluzione della cura, che in particolare il vissuto delle donne ben conosce, ma che deve poter essere patrimonio condiviso, stile di relazioni e modalità di impegno capace di rigenerare dall’interno gli ambiti della vita comune e di ridare respiro alla progettualità politica. La cura è fatta di tenerezza e di coraggio. È la capacità di chinarsi su ogni frammento, di fare attenzione ai dettagli, di saper cogliere i nessi, le implicazioni, le sfumature delle situazioni, delle storie e dei contesti. È la tenerezza di chi si lascia toccare dalla realtà dell’altro, non rimane indifferente di fronte al suo grido, impassibile dinanzi ai suoi sogni. È la forma più alta del coraggio. Ed è sempre politica (come osserva Gaël Giraud in un articolo recentemente pubblicato sulla rivista “Dialoghi”).
La tenerezza è ciò di cui la politica, e non soltanto le relazioni intersoggettive della vita quotidiana, ha più che mai bisogno in questo tempo di crescente stanchezza e disorientamento in cui la rabbia rimonta. La tenerezza della cura sa vedere quello che ancora non è ma che può essere, sa scorgere risorse e potenzialità anche dove sembrano esserci solo macerie; sa alimentare la speranza perché mobilita le energie di ciascuno, senza scivolare sui drammi ma facendosi ascolto, sostegno, e soprattutto ricerca, sforzo e impegno autenticamente condivisi. La cura è capacità di andare oltre l’immediatezza degli interessi particolari o dell’emergenza del momento. È lungimiranza e profezia, ma è soprattutto creatività, immaginazione e capacità di visione. Per questo non sopporta il monopolio di un pensiero unico, ma dà spazio alle idee, alle competenze, alla ricerca e alla sperimentazione di percorsi nuovi. L’aver cura che è della fraternità/sororità è il gusto e la passione dell’insieme. Ha uno sguardo e una intelligenza che include: riconoscendo che l’apporto di tutti è necessario e prezioso e che solo insieme si può stare dentro la realtà senza subirla, e solo insieme si può provare a immaginare e costruire un mondo nuovo “in cui avrà stabile dimora la giustizia” (II Pt 3, 13).
Riproporre il senso di questa fraternità/sororità è allora muoversi in una prospettiva rivoluzionaria e insieme concretissima, è protendersi nell’impresa della rigenerazione di questo mondo che avvertiamo sfaldarsi sotto i nostri occhi. Ma non è forse di questa prospettiva coraggiosa e rivoluzionaria che abbiamo oggi bisogno? Ritornare a sognare, imparando però a sognare insieme, con il cuore, la testa, e le mani: perché la realtà è tessuta di un sogno e dobbiamo solo avere il coraggio di liberarlo.
*Docente di Filosofia della religione e responsabile scientifico della Specializzazione in Teologia fondamentale (Teologia dell’esperienza religiosa nel contesto del Mediterraneo) presso la Facoltà Teologica di Napoli. Dal 2017 è direttrice della rivista «Dialoghi».