La sfida dei cristiani affinché le città non diventino incivili

Lo spazio pubblico è abitato da un popolo, la concordia è il collante dell’identità urbana. Famiglia, ambiente, giustizia sociale contro le derive dell’individualismo

persone che camminano

di Luigi Alici* - Nel suo discorso d’insediamento come Presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden ha inserito una citazione insolita: «Molti secoli fa sant’Agostino, un santo della mia chiesa, scrisse che un popolo era una moltitudine definita dagli oggetti comuni del loro amore». L’intenzione era di riaprire una domanda sull’identità profonda del popolo americano; eppure, al di là del riferimento occasionale, la questione ha una più ampia attualità, che aiuta a riflettere intorno alla città come spazio - fragile e vitale - di convivenza organizzata. Il problema è al centro del libro XIX della Città di Dio, dove Agostino riprende un confronto con Cicerone, avviato molti anni prima nel II libro.

Il vescovo di Ippona aveva imparato da Cicerone che lo spazio pubblico (res publica) è abitato da un popolo: ma qual è la radice “sostantiva” che istituzionalizza la convivenza, trasformando un aggregato accidentale di individui in un vero e proprio popolo (res populi)? Rispetto alla risposta ciceroniana, che evocava il primato della giustizia, in linea con la cultura giuridica romana, Agostino individua nella concordia una forma di amore sociale capace di far battere all’unisono i cuori di tutti: grazie a questo “collante”, nasce un popolo, che istituisce una città, in una sfera “civile” abitata da cittadini. In questo modo, l’accusa rivolta ai cristiani, dopo il sacco di Roma del 410, è radicalmente capovolta: l’amore non soltanto non indebolisce le istituzioni e non destabilizza la sfera politica, ma ne rappresenta piuttosto il vero principio generativo.

Questa tesi agostiniana colpisce al cuore le accuse di “buonismo inconcludente” rivolte oggi al magistero di papa Francesco intorno alla misericordia e alla fratellanza: non dobbiamo ridurre l’amore nello spazio pubblico a una retroguardia assistenzialistica, che si limita a curare alcune ferite senza poter interloquire sui fattori che le provocano; l’amore correttamente inteso, al contrario, è prima di tutto avanguardia profetica che istituisce e “civilizza” la vita comune sul presupposto di un amore condiviso. Ma Agostino non si ferma qui. Sempre nel libro XIX, egli introduce una scansione di forme di vita sociale che si allargano, come centri concentrici, dalla famiglia (domus) alla città (urbs) e all’intero pianeta (orbis); tre dimensioni in bilico tra l’ordine dell’amore, all’origine di una vera civitas, che ha il suo paradigma esemplare nella città di Dio, e la sua controfigura “patologica”, rappresentata da una città terrestre, ripiegata su se stessa e incapace di alzare la testa verso il cielo. Se ne può ricavare un duplice insegnamento: anzitutto, l’invito ad attribuire alla città una centralità strategica, facendone uno snodo vitale tra la famiglia, cellula primaria di vita sociale, e le grandi sfide planetarie, che chiedono di andare oltre ogni egoismo nazionalistico; in secondo luogo, la città, intesa come spazio urbano organizzato, non può essere sospesa in un limbo di servizi, in quanto anch’essa è attraversata da una tensione fra amore ed egoismo, concordia e discordia, il “civile” e l’“incivile”.

Il futuro della città, oggi in bilico tra implosione e riscatto a causa della pandemia, non può essere abbandonato agli approcci settoriali - in ogni caso necessari ma non sufficienti - dell’urbanistica, dell’ecologia, della demografia, della sociologia... Due secoli fa meno del 10% della popolazione mondiale viveva in spazi urbani; nel 1960 questa percentuale si è innalzata a circa un terzo, mentre nel 2008 l’Onu ha dichiarato che per la prima volta più della metà della popolazione della terra era ormai urbanizzata. Continuando così, entro il 2030 circa il 60% dell’umanità potrebbe vivere accalcata in megalopoli mostruose e ingovernabili, circondate da montagne di rifiuti, che rubano spazio alla biodiversità e all’agricoltura, diventando uno dei principali fattori di riscaldamento globale. Non è detto che il binomio tra città e civiltà debba durare per sempre. Oltre una certa soglia critica, il processo di urbanizzazione va fuori controllo e le città possono trasformarsi in luoghi irrespirabili e alienanti, in cui le fragilità, personali e strutturali, diventano l’epicentro osceno di tutte le omissioni, ingordigie, pigrizie, carenze di progettualità.

La sfida interpella simultaneamente l’etica pubblica e l’annuncio cristiano, consentendo di misurare la credibilità di un loro autentico dialogo: da un lato, si può mettere alla prova un’idea di laicità aperta, che non confonda pluralismo e relativismo, e non si arrenda a un individualismo possessivo in cui salterebbe ogni equilibrio tra privato e pubblico; dall’altro, si possono riconoscere le distorsioni spiritualistiche di un cristianesimo evasivo e impaurito, che rifugga da orizzonti allargati nell’annunciare il Vangelo. Senza escludere interventi strutturali e urgenti, il cristiano vede nel tessuto scucito dell’essere insieme, non uno spazio ostile o impermeabile all’annuncio cristiano, ma la vera periferia da abitare ed evangelizzare, secondo un invito inequivocabile di Fratelli tutti: «Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano » (FT, 78). Una città agnostica nei confronti della cellula familiare e indifferente alle minacce che pesano sul futuro del pianeta non è più il luogo di un’“amicizia sociale” che deve perseguire, aggiunge Francesco, «il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze» (FT, 131), diventando «condizione di possibilità di una vera apertura universale» (FT, 99).

Una città che s’illude di “vendersi” come luogo di consumo totale, contenitore indifferenziato di pulsioni individualistiche, non ha nulla da dire né alle formazioni sociali più intense e generative, come la famiglia, né alle grandi battaglie per i diritti di cittadinanza, per la pace, la giustizia sociale, la salute globale. È nella disarticolazione di questa alleanza che la città rischia di giocarsi il proprio futuro, quando le macerie della pandemia appariranno in tutta la loro gravità, di ordine non solo sanitario ma economico, sociale, culturale, spirituale. Anche i cristiani però - soprattutto nelle società industriali avanzate - rischiano di essere sepolti sotto le stesse macerie, se non sapranno collocare il proprio “ospedale da campo” fra il centro e la periferia della città, dove i conflitti possono esplodere in modo incontrollabile e dove il duello fra miseria e misericordia diventa cruciale. Forse si riferisce anche a questo il monito severo dell’Apocalisse: “Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città” (Ap 22,14).

*Docente di Filosofia morale all’Università degli Studi di Macerata, dove insegna anche Etica fondamentale e dirige la Scuola di Studi Superiori “Giacomo Leopardi”. È stato presidente nazionale dell’Azione cattolica italiana e direttore di «Dialoghi». Questa articolo è stato pubblicato su «Avvenire» del 8 aprile 2021. È una riflessione sul tema “Città”, in vista della celebrazione della XVII Assemblea nazionale Ac «Ho un popolo numeroso in questa città».